Primordial – “How It Ends” (2023)

Artist: Primordial
Title: How It Ends
Label: Metal Blade Records
Year: 2023
Genre: Folk/Black Metal
Country: Irlanda

Tracklist:
1. “How It Ends”
2. “Ploughs To Rust, Swords To Dust”
3. “We Shall Not Serve”
4. “Traidisiúnta”
5. “Pilgrimage To The World’s End”
6. “Nothing New Under The Sun”
7. “Call To Cernunnos”
8. “All Against All”
9. “Death Holy Death”
10. “Victory Has 1000 Fathers, Defeat Is an Orphan”

È così che finisce? Niente più variopinti quanto universali miti da tramandare di bocca in parola e di parola in bocca, più nessuna fiera canzone di protesta, più nessuna voce di dissenso o in disaccordo, più nessuno coraggioso abbastanza da cantare fuori tono, da riscrivere il ritornello e vivere fuori da questo suo tempo, al suo tempo. È così che un’intera lingua muore – straziata, eliminandola nella sua complessità abbattendovi un singolo parlante alla volta fino all’estinzione? È questo il cappio che ci aspetta alla fine del patibolo? È questo l’ultimo capitolo, prima che venga bruciata ogni storia custodita in ogni capitolo contenuto in ogni libro? Prima che venga bruciato ogni diverso colore in ogni tela di ogni dipinto, ogni emozione contenuta in ogni confezione di ogni disco sulla statuaria pira dell’antitesi di quel che ci rende uomini? È così che tutto finisce, in una sola canzone che resta vittoriosa a festeggiare senza rivali su tutte le altre; così finisce, in un solo ritornello che rimane codificato su una piattaforma digitale, coccolata dalle muscolose braccia del suo fedele algoritmo che consiglia pigrizia come un confidente oscuro, felicemente cantato da tutti all’unisono. Una sola melodia permane, e le parole cucite su di essa sono le medesime, intonate dal coro di colli umani che si spezzano: il ronzante, perpetuo Sol dominante nell’inno di questo mondo che si protende verso il cielo come fiamme nella notte dell’anima.

Il logo della band

Forse allora di tutto ciò occorre cantare, oggi più che mai — di un profondo, inflessibile dolore occorre cantare: di come ci si può sentire quando il proprio nome, quello dell’ultimo della fila sotto il tiro del plotone di esecuzione, viene finalmente chiamato a morte. Di cosa si prova quando, nel proprio nome di ultimo di una specie volatilizzatasi nella resistenza, si sente la prima nota maggiore di quell’unica canzone che resta; di come, nonostante ne sia nemica giurata, sia proprio quest’ultima a mettere in ironica luce protagonista tutta la disarmante poetica dell’uomo-simbolo ch’è in verità senza nome: un’ombra evanescente su carta vecchia e sbiadita, pronto a dissolversi nelle fauci di fuoco del tempo. Non un soldato comunemente inteso, ad ogni modo, bensì un uomo solo, armato di mera rivoltella contro il mondo intero nell’innescata, brutale marcia di tutti contro tutti, mentre un rullante batte scandendo i suoi passi in lontananza, inascoltato, solo e suicida contro la moltitudine, solo contro il suo male mentre sale la collina per avere maggiore visuale su quell’orizzonte di virtuale armata: un ultimo proiettile dentro al tamburo, il calcio nella mano sudata e poco salda. Ci ricorda un po’, a voler bene immedesimarsi, il disperato, allucinato protagonista di “Indoctrine” (Blood Revolt, 2010) e persino l’intera generazione post-bellica di “Human Antithesis” (Void Of Silence, 2004). Ma quel che questa volta rende quella mano infinitamente più lucida, per nulla alienata, in questo senso curata e dunque infallibile in barba all’avversità, è il sentore della lama arrugginita del destino che si fa avanti; la vessazione sull’uomo semplice che non ha più niente da perdere in vita né in morte, proprio in tempi definiti di pace politica. Perché ogni macellato diventerà prima o dopo macellaio, dichiarano nero su bianco dei Primordial quanto mai speranzosamente torvi e avversi al circondario nella loro continua battaglia in musica di cui “How It Ends” si manifesta nuovo paragrafo, nuova sezione in continua comunicazione intertestuale non soltanto con la restante parte di discografia che lo precede (e, v’è da esserne certi dopo dieci dischi, che lo seguirà) ma anche e soprattutto con molto del materiale lirico uscito negli ultimi venticinque anni dall’autenticamente acuta penna del teatrico Nemtheanga: un nondimeno tutto nuovo pellegrinaggio di uomini che combattono e di altri che si arrendono, separati come grano e paglia dalle terribili meccaniche negli ingranaggi dell’industria della vita, dissolvendosi nella inesprimibile luce del progresso.

La band

La traduzione in musica di simili contenuti (o viceversa, la base ideale su cui elucubrarli in una tale, spiazzante libertà) è del resto difficile se non impossibile da immaginare diversa dal suono di oggi e ieri dei Primordial, pur nelle sue spesso grandi differenze tra passato e presente (nella voce sempre più potente ed amaramente espressiva di Averill, quanto nella stesura che come sempre parte dalle inconfondibili sei corde maestre di MacUiliam o dalle quattro più timide del pilastro MacAmlaigh): il rintocco di una campana, non diverso da quello di “Nail Their Tongues”, a maledire l’umanità intera quasi con affetto, ovverosia sentendosi parte non esclusivizzata o esclusivizzante di una comunità spacciata, fatta di pellegrini sopravvissuti buoni solo a proseguire la loro marcia verso la fine dei tempi, sterili testimoni di ciò che è stato perduto invece che ascoltatori di tutto ciò che è ancora salvabile nelle parole scritte col cuore, a mano, su carta sporca e pronta per essere cantata in studio dietro un microfono che è megafono per il -e sul- mondo intero. Un disco in effetti, se vogliamo, di parti seconde che tuttavia espandono e ampliano significati a non finire, proseguono discorsi in nuove direzioni raffinando le mai comuni metafore religiose, ma soprattutto rinverdendo ed amplificando il potere di quelle storiche, fattuali, e persino di quelle mitologiche raramente -nei fatti- sperimentate dall’oggi quartetto di Dublino (si pensi a “Children Of The Harvest” da “Spirit The Earth Aflame”, con cui “How It Ends” condivide non soltanto il Paul McCarroll curatore grafico di ogni ristampa successiva alla Hammerheart, ma dopo oltre vent’anni di successi Metal Blade anche una ripristinata nonché medesima formazione a quattro).
Gli elementi di raccordo con un “To The Nameless Dead”, per dirne uno, sono dopotutto carontici: da un lato è senz’altro vero che il vespaio di ricorsivi lead chitarristici gemelli dal sapore British che si legano e slegano con gli ormai tipici salterelli armonizzati dotati di quel gusto dalla chiaroveggenza di un Heavy Metal eretico, che già ha rinforzato e in un certo senso anche un filo sgrezzato la composizione dei dublinesi negli ultimi tre album, qui si riprende con forza quasi esoterica le reminiscenze celtiche e Folk nel classic-Doom di “Storm Before Calm” e “Redemption At The Puritan’s Hand”, come assistiamo non nella sola, tradizionale “Traidisiúnta” o nell’apertamente esplicito benché ampiamente interlocutorio appello pagano camuffato in “Call To Cernunnos” (una “Dark Song” invertita di gradiente e splendidamente consegnata ad un discorso moderno in essenza), oppure in “Victory Has 1000 Fathers, Defeat Is An Orphan” (glorioso up-tempo di chiusura à la “Empire Falls” che pare figlio bastardo di “Where Greater Men Have Fallen” e “Sons Of The Morrigan” senza assomigliare realmente a nessuno dei due), ma soprattutto nella scrittura e ancor più nell’arrangiamento esercitato nell’anomala “Ploughs To Rust, Swords To Dust”, o nella mistica, sincopata e alchemica cavalcata etena di O’Laoghaire (che sembra suonare un bodhrán più che un set di cassa-tom) palco della storta atmosfera maledetta di “We Shall Not Serve”, forse uno degli episodi più caratteristicamente Primordial dell’intero disco, e dell’altamente emozionale title-track (dove “Stolen Years” diventa un’opener da groppo in gola e manifesto da applausi) tacendo del sapore da coraggiosa ballata tradizionale che restituisce l’interezza del lavoro. Eppure il paragone cade al contempo misero analizzando alcuni altri dei più interessanti, se si vuole coraggiosi e riusciti episodi dell’album in cui la concretezza degli ultimi lavori (in particolar modo, chiaramente, di “Where Greater Men Have Fallen” ed “Exile Amongst The Ruins”) lascia più spazio ad una certa volubile astrattezza di strutture maggiormente tipica del Black Metal, benché manchino quasi totalmente alcuni dei tropi maggiormente identificativi come accenni di blast-beat (del tutto assenti all’appello, sorprendentemente) e harsh-vocals (ormai, al contrario, sempre più mescolate nel grattato dell’ugola di veleno Averill che passa da registro basso ad altissimo con nonchalance druidica nella medesima strofa, come emozioni pure che non possono in fondo essere sezionate o comandate); non soltanto più vicini a quel linguaggio nelle sostenute marce della title-track e del terzo brano in scaletta, ma forse ancor di più negli imprevedibili incupimenti d’umore e tono (come magistralmente avviene da un lato all’altro dello spettro espressivo, di riff in riff, nella “Death Holy Death” figlia tanto di “The Mouth Of Judas” quanto di “Born To Night”, o nella closer) oppure in quelle tele armoniche arpeggiate tipiche della musica nera più rallentata (l’agrodolce e cantilenata “Pilgrimage To The World’s End”) che fino a ieri era stato bagaglio d’influenze dell’uscente ma cruciale Micheál O’Floinn.
La splendida, seppure realmente sotterranea, varietà espressiva nel monolite ch’è “How It Ends” si mostra dunque ad abundantiam, piuttosto che nella somma, nel contrasto tra la direzione a tratti più Folk e i monumentali ascendendo alla “As Rome Burns” che non scaricano la tensione drammatica sul loro finire ma procedono al solo infinito accumulo canzone dopo canzone come esemplarmente avviene nella interessantissima, pesantissima ed enormemente cupa “All Against All”, esperimento dove un favoloso Beherith-riff in odor di “Engram” flirta con una rotonda mefistofelicità reminiscente di “The Alchemist’s Head”, o nel maelstrom di finale droning che regala la fatalista “Nothing New Under The Sun”: in ogni strofa cantata vi è una scogliera da saltare; in ogni sezione ritmica uno strapiombo che toglie il fiato lasciando sempre incuriositi sulla possibile destinazione, lasciando le domande accumularsi a cercar risposte in un curioso ma stimolantissimo dialogo tra Schopenhauer, Cernunnos, Joseph Plunkett, Samuel Beckett, Jérôme Reuter e William Butler Yeats, Rupert Brooke, poeti di guerra e profeti di pace che cantano l’appartenenza all’inappartenenza grazie al potere di una narrazione dove la metafora diventa immagine dolorosamente reale, nitida, palpabile come la concretezza di storie dal passato che si fanno parabola dell’intero presente, una possibile cartina navale illetta. Una narrazione talmente forte nel suo unicum di musica e parole da spingerci a riflettere sul potere della stessa narrazione.

Un disco al solito importante e splendidamente longevo, “How It Ends”, un invito alla ribellione culturale e spirituale a partire dall’oltremodo impegnativo titolo e giungendo al suo nondimeno sfidante contenuto. Un album come fatto di resina antica che si solidifica in qualcosa di nuovo: duro, impertinente e scostante, non agevole da penetrare a fondo senza la giusta predisposizione discorsiva eppure traslucido, che non è tuttavia considerevole tanto per la monolitica, usualmente seria e significativa durata (in fin dei conti, per quello bastava appunto rivolgersi agli ormai già capisaldi rilasciati da “Redemption At The Puritan’s Hand” in avanti), quanto per i temi e le parole sempre più universali e cariche di significati cruciali per maturare pensieri che, in ogni strofa, in ogni scelta lessicale, accompagneranno se lo vorremo per il resto dell’esistenza.
Un parto insomma presumibilmente difficile anche per i crismi e gli standard non esattamente semplici o facilmente digeribili dei Primordial, per più di un motivo: vuoi per la maggiore compattezza sonica, per una varietà complessa da riconoscere ai primi ascolti a fronte di una minore umbratilità rispetto al suo diretto predecessore ma anche della detta solidità in brani medio-lunghi tutti aggirantisi attorno allo stesso timing; oppure perché liricamente al contempo più apertis verbis e più metaforici che mai, da uomini dai modi antichi tuttavia indispensabili, se ne renda conto o meno, al mondo moderno. Perché siamo caduti così lontani dall’albero, spiaggiati dal satanico pugno di ferro della civiltà sulla nuda roccia infertile ai confini del mondo che noi stessi abbiamo creato dal nulla: un antico, infausto porto insicuro a cui nessuna nave incerta, dalle nere vele bucate e dalla chiglia forata e arrancante sotto alle onde impetuose di una tempesta scatenata dalla maledizione attirata dai suoi passeggeri mai attraccherà. Almeno finché la fine dei tempi non rubi loro l’ultimo, ormai insensato, respiro. Ma come diceva un certo Wakeford, in quella grande tomba nel cielo che è il Paradiso, a nessuno interessa; a nessuno, tolto un manipolo di uomini i quali hanno capito che il pane dell’amarezza si spezza soltanto col vino del Diavolo, man against all that stands in the raging storm, come fuorilegge sotto la coltre del cielo aperto.

Rougher than death this road I choose, yet shall my feet not walk astray.
Though dark my way I will not lose, for this way is the darkest way.
But who shall lose all things in one, shut out from heaven and the pit –
Shall lose the darkness and the sun: the finite and the infinite.

Matteo “Theo” Damiani

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